Ci sarebbe voluto un regista come David Fincher per raccontare la vita di Ray Kroc. O quantomeno, un regista capace di trasformare, non solo la storia del suo protagonista, creatore negli anni ’50 della catena di fast food McDonalds, ma il film stesso nell’immagine distorta eppure autentica del più puro spirito d’impresa americano.
Gli elementi che avvicinano The Founder a The Social Network nella costruzione del personaggio principale sono evidenti: l’elaborazione caparbia di un’idea rubata ad altri; il sacrificio della vita privata in nome del successo; il giudizio umano impietoso a dispetto di un riconoscimento sociale enorme. Come Mark Zuckerberg, prima di Zuckerberg, Ray Kroc ha saputo trasformare le esigenze basilari dell’uomo in una fonte di reddito potenzialmente infinita: l’amicizia e la curiosità da una parte, il bisogno e il piacere di mangiare dall’altra. Alla figura di Kroc manca la spinta del condizionamento sociale, fondamentale per il bilioso Zuckerber pensato da Fincher e dallo sceneggiatore Aaron Sorkin, poiché a muoverlo è soprattutto la frustrazione dell’insuccesso, la rabbia accumulata in anni di delusioni professionali che si tramuta in cinismo sfrenato.
Questo per stare alla pura e semplice costruzione del personaggio, che è furbo, ambizioso, insistente, caparbio, preveggente, intuitivo. Ray Kroc ha un solo dono: sa anticipare le mosse di avversari e colleghi. Tutto quello che fa, lo fa trasformando la forza o la disperazione degli altri in guadagno per sé stesso, anche quando deve divorziare dalla moglie che da tempo non lo ama più. Kroc è un animale sociale che interpreta in chiave prettamente utilitaristica la selezione naturale della specie. E lo fa con il sorriso da venditore sempre pronto, con la parlantina dell’imbonitore che aggredisce i propri clienti alla stessa maniera in cui, nella prima scena del film, aggredisce gli spettatori: guardandoli dritti negli occhi.
L’inquadratura iniziale di The Founder sembra almeno inizialmente il classico primo piano allo specchio del performer che prova il suo numero prima di andare in scena. Allo stacco di montaggio successivo, però, diventa evidente come, in realtà, si tratti della soggettiva di un cliente di Krock, il proprietario di un fast food che non accetta di comprare una partita di frullatori. Lo spettatore di The Founder, insomma, è uno dei tanti, infiniti clienti di Ray Kroc: vittima delle sue doti di venditore ma sempre vigile.
Peccato che la prima inquadratura del film sia in realtà l’unica vera idea di regia di John Lee Hancock. Un’idea che basta e avanza per allestire una prima parte in cui la mitologia dell’uomo della strada si accompagna alla celebrazione del primo McDonald’s (nato a inizio anni ’50 grazie dalla genialità produttiva dei fratelli Dick e Mac McDonald, proprietari di un piccolo ristorante d’asporto nell’entroterra californiano) e per lasciare allo spettatore il dubbio sull’effettiva celebrazione di ciò che sta vedendo. L’eccesso nella descrizione dell’american way of life è così marcato da essere quasi parodistico, così come, specularmente, la progressiva distruzione dell’idillio da parte di Kroc (che è l’espressione massima dello spirito americano, e dunque una sua metastasi) arriva in maniera scontata, attraverso la ripetizione a dismisura del sogno gelosamente custodito dei fratelli MacDonalds.
Il problema di The Founder è che al progressivo svelamento della natura ferina di Kroc, che prima convince i fratelli a nominarlo responsabile dei franchising del loro ristorante, poi espande il nome di McDonald in tutti gli Stati Uniti e infine scippa ai suoi creatori il marchio e avvia l’impero multimilionario che tutti conosciamo – non segue un adeguato cambio di passo e di sguardo del film.
Se infatti lo spettatore inizia presto a non credere alla presunta bontà del protagonista, cogliendo così il senso della soggettiva iniziale, in realtà succede che sia proprio Kroc a prendere possesso del film. Lo conferma la ripresa verso il finale del suo primo piano mentre prova un discorso, intendo a specchiarsi per davvero e non più a parlare con un cliente. Lo sguardo dello spettatore finisce per coincidere con quello del protagonista, mettendo in scena la vittoria di Kroc su un intero popolo di consumatori e la resa del cinema al suo carisma.
Tant’è che bisogna aspettare i titoli di coda e la vera voce di Ray Kroc, acida e incattivita, per provare quel moto di disgusto che la faccia seducente di Michael Keaton riesce in qualche modo a ritardare per tutto il film.